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La memoria sotto la pelle

Fra il 1990 ed il 1993, l’artista concettuale Jochen Gerz ed un gruppo di studenti realizzarono una delle più controverse opere pubbliche sul tema della memoria. Inizialmente in clandestinità, poi con l’avallo della giunta cittadina, sollevarono nottetempo i ciottoli di porfido nella piazza principale di Saarbruecken (Germania), proprio di fronte alla sede del Consiglio Regionale. Sotto ad ogni cubetto di pietra fu inciso il nome di un cimitero ebraico distrutto dai nazisti, per poi riporlo esattamente al suo posto. Durante il giorno la cittadina continuava la sua vita provinciale e sonnolenta. Alla notte, quando il sonno apre le finestre dell’inconscio e lascia uscire per breve tempo i fantasmi interiori, il ricordo prendeva forma e si raccontava. Per tre anni. Chi ora giunge nella piazza, rinominata Platz des Unsichtbaren Mahnmals” (Piazza del Monumento Invisibile) non vede nulla di diverso da prima. Ma bastano poche parole incise sulle targhette ai suoi lati per informare il visitatore che lì, proprio lì sotto ai suoi piedi, la Storia è ancora viva.

Un monumento tradizionale sarebbe stato kitsch, quasi uno spettacolo dell’orrore post-bellico, inventato per glorificare un evento; quello che è per taluni una vittoria e per altri è una sconfitta. L’invisibilità del monumento è pensata in forma di cura: se devi rappresentare l’assenza, devi creare l’assenza; e quella assenza permette alle persone di creare il proprio memoriale”¹

Ho pensato qualcosa di simile poco più di vent’anni fa, passeggiando sulla spianata di Mauthausen, fra gli imponenti monumenti bronzei che ogni nazione ha voluto apporre a memoria dell’orrore vissuto. Un senso di perdita e di soffocamento in mezzo ad una foresta di braccia alzate e di volti supplicanti. La sensazione di essere trascinato nel gorgo della Storia e di essere condannato, di essere condannati, ad un ciclo eterno di ripetizioni. Altre braccia alzate, altri volti supplicanti. Prima di me, dopo di me. Sempre.

A riportarmi nel là ed allora furono le mosche. Troppe, fastidiose, nel caldo di un settembre ancora aggrappato all’estate continuavano a posarmisi sul volto sudato. Ricordo di essermi detto: “il fastidio è dentro, deve essere dentro, deve prendere radici”.

I monumenti da soli non bastano. Colpiscono con la loro ieratica maestosità, muovono passioni e a volte riescono a creare il senso di appartenenza ad una narrazione condivisa. Ma non basta. Serve una memoria introiettata, che sola può realizzarsi nel continuo racconto, nel continuo pensiero.

Quando un evento non è pensabile, diviene presto indicibile. E quando è indicibile, manca un rappresentante simbolico per poterlo comunicare e tramandare. Rimane inscritto in una memoria orfana di segni per poterlo contenere, ed allora sfugge attraverso l’azione, il gesto. Quella violenza, quell’orrore che non riusciamo a pensare e poi non riusciamo più a dire si trasformano nell’atto di sopraffazione, nella sua ripetizione concreta, in attesa di un nuovo simbolo che li rappresenti e li possa rendere comunicabili.

È questa la funzione della Memoria: rendere comprensibile e rappresentabile qualcosa che  sfugge alla volontà e si risveglia nell’agito; è sentire dentro di sé, come innato, l’orrore per quel gesto di sopraffazione. È un’ azione innaturale e pur necessaria: sfuggire alla catena di vinti e vincitori.

Altrimenti, Caino sarà sempre condannato a scagliare quella pietra contro Abele.


¹ Jochen Gerz, intervistato da Marc Callaghan per Art Times Journal Online, Ottobre 2010. https://www.arttimesjournal.com/speakout/Nov_Dec_10_Callaghan%20/Nov_Dec_10_Callaghan.html

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